L’arte è espressione di sé e della realtà, tentativo di comunicazione, voglia di raggiungere l’infinito e, se vogliamo, di cavalcarlo, di reinterpretarlo, di capirlo. Cosa è veramente l’arte se non stupore o dolore di fronte all’insondabilità dell’universo, della vita e della morte? Espressione più alta di ragione e sentimento? Chiunque tentasse una definizione parziale o cattedratica, una vivisezione di cosa rappresenta l’arte e un artista commetterebbe un errore madornale, tentando di rendere razionale qualcosa che lo è solo in parte e solo nella sua accezione più umana. Il grande scultore Etsuro Sotoo commenta spesso che l’arte si completa in chi guarda, si comunica attraverso il contraccolpo di chi la ammira. Esiste tuttavia una certa tendenza nella nostra società moderna segnata dal positivismo portato all’eccesso, di voler catalogare tutto, qualunque forma umana o espressiva, al prodotto “meccanico” di fattori esterni, alla contingenza o, peggio ancora, ad elementi biologici o fisici. Si tratta di una deriva della scienza che ci trasciniamo da diversi secoli che vuole razionalizzare qualunque cosa a dispetto di quel complesso di intelligenza, creatività, volontà, miseria e nobiltà che è l’uomo. Tanto più se è un artista.
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Van Gogh? Uno che vedeva “solo” il giallo…
[dup_immagine align=”alignleft” id=”167817″]Per questo la ricerca effettuata e divulgata da Paul Wolfe, direttore del dipartimento di patologia e medicina dell’
Università di San Diego, fa più sorridere che interessare, per la superficialità con cui affronta la questione dell’estro creativo e della sua origine. In breve, Wolfe ha studiato diverse opere di artisti di varie epoche ed aree geografiche per cercare di sorprendervi i riflessi delle malattie che li affliggevano e che ne condizionavano la produzione. Insomma, i quadri di
Monet, di Van Gogh o di Michelangelo non sono prodotto della loro genialità ma dalle condizioni “esterne” in cui venivano a trovarsi. Ora, che un artista in una sua opera metta tutto sé stesso – comprese le inquietudini, le difficoltà e, in ultima analisi, anche “le malattie” – è cosa naturale e ovvia. Ma da qui a sostenere che, per esempio, la scelta dei colori di Van Gogh fosse derivata dalla xantopsia, una disfunzione che rende più evidente alla vista il colore giallo causata dall’utilizzo di farmaci contro l’epilessia, rasenta più il ridicolo che il razionale. E se anche fosse? Questo mette forse in discussione tutta l’enorme carica umana ed il tormento interiore di un artista come Van Gogh o nega la sua appartenenza ad un “momento” produttivo dove la riscoperta dei colori primari era un patrimonio comune di diversi artisti?
Michelangelo? Depresso…
[dup_immagine align=”alignright” id=”167816″]Scorrendo la ricerca di Wolfe si trovano altri esempi. Michelangelo, dice lo studioso americano, mancava di carbonato di litio, cosa che lo fece cadere in una grande depressione che lo portò a dipingere uno sconsolato e malinconico Geremia nella Cappella Sistina.
Goya, diventato sordo, accentuò l’oscurità della sua produzione. Non mancano gli esempi – piuttosto ovvi, in verità – di artisti la cui pittura, specie in tarda età, sia stata condizionata da menomazioni fisiche: la parziale cecità di Monet e l’artrite deformante di
Renoir, la malattia degenerativa di
Paul Klee o la difficoltà a maneggiare i pennelli di
Mirò sono senza dubbio contingenze che ne hanno modificato la produzione. Ma non è forse più rilevante ammirare come questi uomini, arsi dalla “necessità” di comunicare con la propria arte, non si siano fermati di fronte alle difficoltà “fisiche” che gli si ponevano innanzi?