Intervista a Nicolai Lilin, voce de I miei 60 giorni all’inferno su Sky: “In carcere per guardarci dentro”

Nicolai Lilin, autore del best seller Educazione Siberiana, introduce gli episodi della nuova stagione della docu-serie in onda da mercoledì 17 maggio su Crime+Investigation, che segue l'esperimento di nove infiltrati nel carcere di Atlanta: lo abbiamo raggiunto per farci raccontare l'importanza di questo progetto.

17/05/2017

Cosa succede a nove persone che, del tutto innocenti, decidono volontariamente di sperimentare la reclusione in un carcere di massima sicurezza?

Lo racconta Nicolai Lilin, lo scrittore russo autore del best seller Educazione Siberiana, che ha ispirato l’omonimo film di Gabriele Salvatores, e della serie di racconti Favole fuorilegge, a lui tramandati dal nonno insieme ai suoi disegni-tatuaggi.

L’autore russo, naturalizzato italiano, introduce gli episodi della nuova stagione di I miei 60 giorni all’inferno, la docu-serie in onda da mercoledì 17 maggio alle 22.00 su Crime+Investigation (in esclusiva su Sky al canale 118): nove volontari dalla fedina penale immacolata si trasformano in infiltrati sotto copertura nel controverso carcere di massima sicurezza di Atlanta (Fulton County Jail, noto anche per aver ospitato il rapper Gucci Mane), in cui i detenuti vengono sottoposti ad una tripla restrizione, con una catena intorno alla vita, alle mani e alle caviglie.

La loro vera identità è nascosta sia agli altri detenuti che al personale della struttura carceraria: per tutti sono dei veri reclusi e la presenza delle telecamere, che seguono da vicino e senza censura la loro esperienza a stretto contatto con guardie e pericolosi criminali, è giustificata con il pretesto della produzione di un documentario sulla vita nelle carceri americane.

I miei 60 giorni all’inferno è un esperimento sociale che vuole raccontare, attraverso gli occhi di chi non ha commesso reati e non meriterebbe il carcere, cosa voglia dire la privazione della libertà in condizioni estreme e pericolose come quelle del Fulton: una realtà che metterà a dura prova la resistenza dei volontari, spingendoli in alcuni casi ad abbandonare l’esperimento prima dei 60 giorni previsti per la sua durata.


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I partecipanti sono uomini e donne comuni spinti a fare quest’esperienza estrema per motivi molto diversi: c’è Jon, un US Marshal che auspica da tempo una riforma del sistema penitenziario in correttivo; Jessica, moglie di un ex detenuto che ha passato in cella quasi 11 anni, che vuole sperimentare la reclusione per capire cosa abbia passato il marito (sarà incatenata con altre 5 detenute per un viaggio di 45 minuti nel retro di un van); Mauri, donna afroamericana che ha lavorato come guardia carceraria in una prigione e vuole denunciare le disuguaglianze del sistema carcerario; Don, figlio di un ex-galeotto, vuole calarsi nei panni del padre; il veterano Matt; l’inspirational coach Gerson; Michelle, una mamma laureata in legge; il marine Nate e l’insegnante per giovani a rischio Calvin vogliono aiutare le guardie carcerarie a conoscere la realtà dei detenuti per migliorare il sistema.

Non è un caso che l’esperimento sia stato realizzato ad Atlanta. Ad oggi gli Stati Uniti d’America hanno la popolazione carceraria più numerosa del mondo con circa due milioni di persone, nonché il tasso di incarcerazione più alto in assoluto (700 persone ogni 100 mila abitanti): il 23% della popolazione carceraria di tutto il mondo risiede negli Stati Uniti.

Abbiamo raggiunto Nicolai Lilin, che ha vissuto un’esperienza carceraria nella Russia post-sovietica sulla sua stessa pelle, per parlare di questo progetto e della sua valenza.

Ciao Nicolai. Partiamo subito da I miei 60 giorni all’Inferno. Cosa ti ha convinto ad intraprendere questo viaggio nel sistema carcerario raccontando le storie di nove innocenti che hanno accettato volontariamente di essere rinchiusi in una delle galere più controverse degli Stati Uniti?

Sono stato convinto dal programma e ho deciso di partecipare perché si tratta di un esperimento sociale che mi piace, credo sia uno dei più coraggiosi esperimenti che sia stato fatto nella società occidentale. È molto strano che sia stato fatto negli Stati uniti d’America, ma vuol dire che la democrazia lì funziona. Questi nove volontari fanno un lavoro da ricercatori in un mondo che fa parte del nostro mondo ma è un riflesso distorto della società, ne fa emergere il male, e attraverso questo programma possiamo capire molto di noi stessi e dei nostri sbagli. Per questo mi è piaciuto molto il progetto.

Come definiresti questo programma dopo aver dato voce alle storie dei suoi protagonisti? Qual è la sua missione?

Lo definisco un “esperimento sociale”, credo che la sua missione sia rivelare al mondo il senso del nostro inferno personale, ciò che emerge sono problematiche che non riguardano solo i carcerati, perché loro fanno parte della nostra società. Tutto ciò che avviene nel carcere è una proiezione di ciò che avviene nella nostra società. La missione è guardare dentro noi stessi, guardare il nostro riflesso, scavare dentro la nostra anima, dentro i nostri pensieri e desideri. Quello che esce fuori è uno scheletro nudo, la nostra coscienza. Questo è molto importante al giorno d’oggi, quando troppi argomenti vengono trattati con leggerezza, questo è uno dei programmi profondi che ci fa riflettere.

Hai provato sulla tua pelle la privazione della libertà in un carcere minorile della Russia post-sovietica. Cosa scatta nella mente di una persona ingiustamente detenuta? Il senso di rivalsa nei confronti di un’ingiustizia subita può paradossalmente trasformare una persona perbene in un criminale?

Io ho fatto il carcere minorile, ed è molto più difficile e più violento rispetto al carcere per gli adulti, perché i minorenni sono molto più suscettibili e reattivi, si lasciano andare all’ira, all’odio, ai sentimenti più bui. Ho visto scenari atroci, di alcuni di loro ho parlato nel mio libro Educazione siberiana, c’è un capitolo intero dedicato al carcere. Io non credo che il carcere in sé può cambiare in meglio una persona, perché si tratta di un trauma. Si può cambiare in meglio ma in modo diverso, senza traumatizzare una persona. Il ricordo del trauma genera dei meccanismi nella nostra anima che possono portare a scenari imprevisti, possono trasformare una persona in un’entità violenta, restituendo alla società un personaggio nettamente peggiorato. Io non credo nella rieducazione del carcere, bisognerebbe sviluppare una forma alternativa per affrontare la questione dei crimini, ci dovrebbero essere diverse norme sulla gestione dei criminali a seconda del tipo di criminale. Vanno divisi, non si possono tenere nello stesso ambiente, perché si rischia di contaminare i più puliti con i più negativi. Non si può pensare che una persona può essere rieducata semplicemente con la privazione della libertà. Per me la privazione della libertà è solo una tortura medievale.

Hai dichiarato che in carcere “tutti sono innocenti e colpevoli allo stesso tempo”: perché secondo te è così labile il confine tra innocenza e colpevolezza?

Il carcere è un ambiente dove lo stesso senso dei concetti di colpevolezza o innocenza perdono significato, perché tutte le persone che finiscono lì diventano vittime e cominciano a subire tutto ciò che succede in quell’ambiente: privati della libertà, anche il peso di quello che hanno fatto quando erano liberi perde significato e viene assorbito dalla realtà che stanno vivendo. Ad esempio una persona che ha rubato se viene mandato in carcere e finisce in una cella con dei delinquenti e subisce violenze sessuali, diventa una vittima, perché subisce violenze che superano il reato che ha commesso, lo rendono innocente o anche martire in qualche modo, perché sta subendo una punizione peggiore rispetto a ciò che ha commesso. Quando parliamo di questo bisogna fare attenzione a questi due concetti Innocenza/Colpevolezza, di questo ha parlato un grande filosofo come Dostoevskj in Delitto e castigo che consiglio di leggere.

[dup_immagine align=”aligncenter” id=”239447″]Sembri convinto della capacità di redenzione degli esseri umani, anche dei criminali più incalliti. Cosa ti fa essere così ottimista?

Ma in realtà io non credo nel fatto che tutti cerchino una redenzione, non tutti l’avranno, non tutti vogliono abbandonare la strada del crimine, io dico soltanto che la dinamica della punizione è ingiusta, è medievale, per il livello di sviluppo etico-morale e tecnologico che ha raggiunto la nostra comunità. È come se andassimo in giro con le macchine elettriche e mangiassimo cibo raffinato e poi quando andiamo in bagno ci dimentichiamo di pulirci il didietro. Le cose sono sproporzionate, una società che ritiene di essere sviluppata deve abbandonare certe dinamiche, le attuali sono medievali, dobbiamo farci delle domande e chiederci perché dalle carceri escono sempre meno persone cambiate in meglio e sempre più criminali. Io credo che le persone siano diverse: ognuno deve affrontare il percorso di punizione e redenzione in modo personale. Il sistema deve essere affrontato in modo filosofico, quando cambieremo filosofia allora potremmo studiare sistemi alternativi, magari abolire il carcere e creare strutture in cui le persone possono ripagare il loro crimine attraverso un contributo nei confronti della società. Senza privare della libertà nel senso stretto, vivere un minimo con senso umano questa punizione. In ogni cosa è sempre bene trovare una via di mezzo, evitare gli estremi, come quando si riempiono le carceri e adottiamo un’amnistia. Questo sistema non funziona, non è coerente, ragiona con mentalità feudale, noi dipendiamo dalla decisione di qualcuno e non sappiamo con quale senso etico decida. Più che ottimisti dobbiamo essere realisti, so come funzionano determinati ambienti e so come ragionano i criminali e quindi credo che soprattutto nel sistema giudiziario deve essere cambiata la filosofia, bisogna agire subito, non possiamo trascinarci questa realtà che ci lega al passato, al tempo in cui bruciavano le streghe e massacravano di botte gli stranieri. Dobbiamo un po’ evolverci.

In Italia è stata avanzata da autorevoli esponenti politici e studiosi (come il senatore Luigi Manconi) una proposta di abolizione delle strutture carcerarie per come le conosciamo oggi: pensi sia una via praticabile? Come si concilierebbe con le esigenze di sicurezza dei cittadini e necessità di repressione dei reati?

Quando si abolisce qualcosa bisogna avere una alternativa, io sarei d’accordo per l’abolizione ma vorrei sapere qual è l’alternativa. Bisogna affrontare il tema della criminalità e della sicurezza. La criminalità non svanisce perché qualcuno ha deciso di abolire il carcere, anzi si sentiranno per un momento un pò più liberi e avvantaggiati. È un processo che non riguarda soltanto la situazione carceraria, è un lavoro che deve fare la società intera. Così anche per la corruzione, deve essere abolita nella mente delle persone, come concetto. Dobbiamo creare un sistema di controllo e punizione per poter evitare che i delinquenti creino problemi nella società, che possano essere produttivi per la società e ripagare il proprio debito, tornando nella società come persone sane che non vogliono più vivere nel crimine. Per elaborare questo servono scienziati, sociologi, ma sicuramente bisogna cambiare la cultura di un’intera società e non si realizza in modo veloce e con la proposta di abolire le carceri. Bisogna cominciare da noi, dai nostri atteggiamenti, con gli anni, un progetto del genere non inizia e non finisce in un paio di anni, non è una riforma qualsiasi.

A proposito di storie – criminali e non – raccontate in tv, in Italia si parla ciclicamente del rischio che la televisione possa “mitizzare” determinati comportamenti e stili di vita, penso alle critiche a Gomorra ad esempio. Credi che questo pericolo esista presso un pubblico come quello italiano, che legge poco e guarda tanta tv?

Io credo che attualmente in una società consumista vengono confusi molti concetti. Spesso il comportamento criminale è diventato quasi un’attrazione per molti giovani, anche figli di persone benestanti, che potrebbero studiare e essere molto utili alla società si atteggiano a spacciatori del Bronx, perché ascoltano della musica che crea queste immagini e cercano di imitarne i cantanti, tra droga e stili di vita che ricorda quello dei criminali. Creano dei vortici culturali che stanno distruggendo la coscienza sociale e soprattutto la cultura dei giovani. La cultura e i film, i protagonisti carismatici che fanno il ruolo dei delinquenti influenzano molto la mente dei giovani. Il discorso non è la quantità di tv, anche nei libri non si trovano più le basi etico-morali, perché oggi anche la letteratura ha smesso di insegnare ma fa semplice intrattenimento o giornalismo. Ti racconta una storia ma senza farti capire una morale. Tutto ciò è legato ad un momento che attraversa la nostra società occidentale ma anche internazionale, il consumismo sta cancellando la morale, l’etica, ha dato un altro significato all’istruzione, alla scuola, al rapporto con gli anziani, a molti giovani mancano le basi, le regole e le cercano da soli trovandole in mondi che spesso fanno parte di culture estreme, tra queste anche quella criminale.

Di recente sei stato ospite di Librinfesta, il festival di letteratura per ragazzi di Alessandria: secondo te cosa potrebbe avvicinare le nuove generazioni alla lettura? Di quali storie sono assetati i ragazzi di oggi?

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Credo sia molto importante per gli scrittori di oggi smettere di occuparsi della scrittura un po’ narcisistica e fare ciò che davvero facevano una volta gli scrittori: narrare, raccontare le storie che coinvolgono i lettori, le storie di avventure, romanzi d’amore, le cose che hanno un contenuto semplice, sociale e che in qualche modo può insegnare qualcosa alle persone. Purtroppo la letteratura, come anche altri generi, attualmente è molto colpita da vari fenomeni partoriti da questo vortice violento che fa parte di questa società consumista. Noi viviamo quello che Pasolini intendeva quando affrontava il discorso della differenza tra lo sviluppo e il progresso: noi ci siamo persi tra questi due concetti senza sapere più il senso dell’uno e dell’altro e stiamo precipitando nel vuoto. Se non vogliamo scomparire dobbiamo trovare degli strumenti per poter ritornare ad essere quelli che eravamo una volta e la letteratura deve svolgere un ruolo importante, deve invogliare a leggere. Molti giovani non leggono più perché non trovano i libri interessanti, li trovano complicati. La cosa che mi commuove è quando i miei lettori mi scrivono di non aver mai letto un libro ma gli unici sono i miei, perché sono scritti in una lingua che capiscono: detto da un ragazzo italiano ad una persona che vive in italia da 13 anni e scrive in italiano dal 2009, mi fa capire che non è una questione di lingua ma di modo di esprimere i pensieri. Anche per gli ambienti che racconto e le cose che costruisco, lo noto nella mia esperienza, i libri di avventura come erano una volta oggi mancano. L’avventura vera che coinvolge il giovane non lo fa stancare della lettura: quando nell’avventura si riescono ad inserire concetti innovativi, hai vinto due volte perché il giovane ha fatto una cosa utile, si è arricchito, ha fatto funzionare la sua fantasia e ha imparato qualcosa a livello etico. Oggi più scrittori devono fare questo tipo di lavoro, comunicare in questo modo. Invece spesso lo scrittore, l’artista è un narcisista, noi persone di cultura dobbiamo smettere di essere narcisisti e dobbiamo rimparare ad essere umili. Solo così possiamo essere davvero utili a coloro che ci leggono e potremmo lasciare un segno nell’epoca, i nostri nipoti ci ringrazieranno quando ci rileggeranno tra cinquanta o sessant’anni.